LA SCATOLA NERA DI DARWIN - La sfida biochimica
Autore: | MICHAEL J. BEHE |
Formato: | 15 X 21 |
Pagine: | 400 |
Anno: | 2007 |
Editore: | LA BUSSOLA |
L'Autore Michael J. Behe (Altoona, Pennsylvania, 18 gennaio 1952) è un biochimico statunitense, sostenitore del movimento antievoluzionista del Disegno intelligente (Intelligent Design, o "ID"). |
LA SCATOLA NERA DI DARWIN - IL LIBRO
RETROCOPERTINA
Nel 1996, La scatola nera di Darwin aiutò a lanciare il movimento dell’Intelligent Design: la teoria secondo cui la natura esibisce prove di una progettualità che va al di là della casualità darwiniana. Ne scaturì un dibattito sull’evoluzione a livello nazionale, che continua ad intensificarsi. Tanto per i sostenitori della teoria quanto per i suoi detrattori, La scatola nera di Darwin rappresenta un testo fondamentale dell’Intelligent Design, quello che illustra al meglio il ragionamento che deve essere affrontato per poter determinare se l’evoluzione darwiniana sia sufficiente a spiegare la vita come la conosciamo.
In una importante nuova postfazione a questa edizione, Behe spiega che la complessità scoperta dai microbiologi è cresciuta in maniera notevole, negli anni trascorsi dalla prima pubblicazione di questo libro. Questa complessità rappresenta una continua sfida al darwinismo, e gli evoluzionisti non hanno avuto successo nei loro tentativi di spiegarla. La scatola nera di Darwin è, oggi, più importante che mai.
INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA
Origini storiche dell'evoluzionismo
L'autore di quest'opera, il biochimico americano Michael J. Behe, è un autorevole critico del neo-darwinismo, collegato al progetto dell'Intelligent Design, promosso dal Discovery Institute di Seattle (Wash.). on è tuttavia un oppositore tout court dell'idea di evoluzione, ed anzi inizia con il riconoscere che «i biologi evoluzionisti hanno grandemente contribuito alla nostra comprensione del mondo». Egli sostiene che la teoria di Darwin ha i suoi limiti e sopratutto non è in grado di spiegare il livello molecolare della vita. Questo rimane una "scatola nera", l'angolo oscuro nel cuore della teoria neo-darwiniana. La "sfida" di Behe al mistero bio-molecolare non ha nulla di teologico, è un problema di complessità biochimica. Tuttavia quest'opera è stata attaccata in Usa e lo sarà in Italia, sul piano religioso, sotto la sbrigativa designazione di "creazionista".
La creazione biblìca non è, come generalmente si afferma, in contrasto con il concetto di "evoluzione". L'evoluzione biologica nasce semmai in contrasto con la fisica, particolarmente con quella dell'Ottocento, dei tempi di Clausius (1865) e di Boltzmann (1877). Per la fisica dell'entropia", l'evoluzione, cioè l'aumento di complessità di un sistema isolato, è un evento altamente improbabile, meglio impossibile. Lo schema dell'evoluzione del cosmo e dei viventi deriva, nella nostra cultura, da una rappresentazione cosmologica, il Genesi l (naturalmente non dalla sua caricatura), che apre l'Antico Testamento. I naturalisti del XIX secolo hanno tentato di trasferire la cosmogonia biblica nella propria filosofia materialista, di appropriarsi della epopea del mondo e dell'uomo, di escluderne il trascendente.
Tutti i presupposti dell'evoluzione, cosmica e biologica, erano presenti nel primo capitolo della Bibbia, che ha struttura naturalistica: l'origine della materia e dell'energia, il formarsi degli elementi, l'organizzazione delle stelle, l'emergere della terraferma, la comparsa della vita e la sua espressione in forme vieppiù complesse e nobili, la finale creazione dell'uomo. «Pur non essendo un libro che possa dirsi scientifico - scrive Giorgio de Santillana nel prologo de Le origini del pensiero scientifico (1961) -, la bibbia inizia con una teoria circa le origini del mondo». Essa prospetta i momenti poi enunciati dagli evoluzionisti del XIX e XX secolo. Il "Pia t lux" (Genesi 1:3) anticipa il nostro "big-bang", la emersione della terraferma (v. 8) annuncia il Cambriano, lo spuntare della "verzura" e il guizzare degli esseri marini (v. 21) il Devoniano, la comparsa dei rettili (v. 25) il Carbonifero, l'età dell'uomo e della donna (v. 27) il Pleistocene. Nel testo biblico il Sole e la Luna non sono nominati (si dicono «le due grandi luci», v. 14-16) per non usare i nomi di divinità babilonesi. La prima versione della genesi fu composta a Gerusalemme poco dopo il ritorno dall'esilio babilonese. La seconda, questa più mitica, fu composta prima, precedentemente all' esilio.
La grande novità dell'evoluzionismo moderno rispetto a quegli antichi testi, è il concetto di derivazione graduale, dei taxa più recenti dai più antichi, per un processo di "mutazione" cumulativa.
La selezione naturale corrisponde al versetto «Dio vide che questo era buono».
La comparsa successiva sulla scena del mondo delle forme viventi, già postulata nella Bibbia, non implica la metamorfosi delle più semplici nelle più complesse, o la "derivazione" delle seconde dalla prime. I grandi biologi del sette-ottocento che questi avvicendamenti scoprirono (Linneo, 1758; Cuvier, 1812), non ritennero che un tipo potesse trasformarsi in un altro. Due secoli dopo nessuno ha contraddetto nei fatti la loro convinzione. «Il phylum che ha già imboccata una strada non po' più uscirne: - ha affermato Grassé (1978) - tutt'al più si individua lizza mediante una specializzazione supplementare». Ma il problema cui il neo-darwinismo non ha dato risposta è, innanzitutto, quello della complessità degli inizi. Darwin invece si era espresso così, in chiusura di The Origin oJ Species: «There is a grandeur in this view of life, with its origina] several powers, having been originally breathed by the Creator into a few forms or into one" (C'è una grandiosità in questa veduta della vita, con le sue molte potenze originarie, che sono state originariamente insufflate dal Creatore in poche forme od in una).
Complessità delle origini
La scienza del sette-ottocento si fondava su due assunti, tanto fondamentali quanto erronei. Il primo era che quanto più a fondo si fosse proceduto nell'analisi della materia, tanto più questa si sarebbe dimostrata semplice. Il secondo, in qualche misura contraddittorio del primo, predicava che quanto più si scendeva nel cuore della materia vivente, tanto più questa avrebbe mostrato la sua specificità. Questo secondo assunto conteneva qualcosa di magico, un residuo della antica "anima" filosofica. Tali erano dunque i due presupposti taciti della visione evoluzionista, che il mondo vivente procedesse dal semplice al complesso, di specie in specie.
La "teoria cellulare", formulata da Schleiden e Schwann nel 1839, fu il culmine di questa visione. L'organismo, prima quello vegetale poi quello animale, fu immaginato come un insieme di piccoli otri, le "cellule", semplici nella struttura generale, complessi nella loro organizzazione supercellulare. Lo zoologo Dutrochet scrisse, nel 1837: «Queste osservazioni non lasciano alcun dubbio sulla natura otricolare dei globuli che compongono con il loro insieme i tessuti della maggior parte degli organi animali. Ci si rende conto che la natura possiede un piano uniforme per la intera struttura degli esseri organizzati, animali e vegetali». Le cellule risultarono la "scatola nera" della vita, e non è un paradosso asserire che, particolarmente dopo l'avvento della biochimica, esse risultarono molto più cornplesse dell'organismo, macroscopicamente descritto, di cui facevano parte. Sbagliava Jonathan Swift quando scrisse (trad, libera):
- In natura c'è una pulce
- Anche lei con le sue pulci,
- che hanno addosso pulcettine, e così fino alla fine (ad infinitum).
La cellula non è la miniatura dell'organismo, è qualcosa di molto più complesso delle forme macroscopiche finali.
Prima di essere adottato per descrivere l'Origine delle specie (Darwin 1859), cioè la filogenesi, l'evoluzionismo era già implicito nella ontogenesi, nella formazione dell'organismo, nelle procedure del suo "montaggio". Così semplice si riteneva la struttura della cellula che, per tutto l'Ottocento (e ancor oggi nella superstizione popolare), si continuò a ritenere che essa potesse originarsi per "generazione spontanea", come una goccia di fango o di brodo. Per il celebrato evoluzionista tedesco Ernst Haeckel, contemporaneo di Darwin, la cellula non era null'altro che «un globulo omogeneo di citoplasma». Nessuna difficoltà quindi a immaginarne l'origine per "generazione spontanea". Nonostante le famose esperienze di Redi sulle larve delle mosche, di Spallanzani sugli infusori e di Pasteur sui batteri, l'idea della generazione spontanea fu dura a morire. Essa rappresentava il primo passo logico nella origine e evoluzione della vita. Darwin si rammaricò che Pasteur la avesse negata. «Se si potesse dimostrarla - scrisse a Haeckel nel 1873 - ciò sarebbe molto importante per noi». Ma c'era poi bisogno di dimostrarla? Il Grand Dictionnaire Universel du XIXe Siècle di Pierre Larousse (1872) dichiarava che la genesi spontanea era «una necessità filosofica, che non poteva farsi dipendere da osservazioni e esperimenti manifestamente impossibili». La contestavano solo i poveri fisiologi «accecati dalla tradizione della scienza dogmatica».
Tutti e due gli assunti della scienza pre-evoluzionista sono stati smentiti. In primo luogo, come s'è detto, la cellula risultò di una complessità altissima. Prima furono individuati i cromosomi (Strasburger, Flemming, 1875), poi i geni (Mendel, 1865, riscoperto nel 1900; Morgan, 1910) poi fu scoperta la struttura a doppia elica del DNA (Crick, Watson, Wilkins, 1950-60) e la struttura tridimensionale delle proteine. Ogni cellula risultò contenere, in termini di nucleotidi, milioni o miliardi di "lettere" ordinate. In termini di geni (genoma), ne comprendeva migliaia o decine di migliaia, in termini di proteine (proteorna) forse dieci volte tanto, organizzate in una rete elaborata. Anche le altre strutture molecolari risultarono di una complessità inimmaginabile. La biochimica sfatò il mito della semplicità dell' origine.
Un singolo flagello batterico, visibile solo al microscopio elettronico, è un elaborato macchinario, composto da un filamento propulsore, un giunto, alcune guarnizioni, un "motore" rotatorio incluso tra lo strato esterno e quello interno della doppia membrana cellulare, la cui complicazione elude la descrizione. Esso contiene oltre duecento tipi di proteine. on è proponi bile che sia nato per caso o per una serie di sbagli fortunati.
La complessità irriducibile
Delusi nella prima aspettativa, che la vita minima fosse elementare, gli evoluzionisti si consolarono adottando la complessità della biochimica come riprova che la vita fosse una colossale libreria, un testo che, decrittato, avrebbe sfatato la magia della specificità (l'anima). Il ricco patrimonio genetico registrato nel DNA si prestava a registrare una vastissima informazione, sufficiente a contenere le specificità di ogni individuo e di ogni specie, passibile di auto-replicazione e di "errori di stampa" e quindi di "riproduzione con variazione", come richiedeva la Teoria. Il DNA parve il substrato ideale per gli esercizi della "mutazione-selezione". Questa attesa fu però presto delusa. Le differenze interspecifiche attestate al livello del D A e delle proteine non avevano rilievo nel fenotipo, non erano seleziona bili! Per dirla con R. E. Dickerson (1976), «quanto più ci si avvicina al livello molecolare nello studio degli organismi viventi, più simili questi appaiono e meno importanti divengono le differenze fra, per esempio, una mosca e un cavallo» Al livello molecolare le differenze c'erano, ed erano dovute a mutazioni, ed erano sì tanto più numerose quanto più lontane tra loro erano le specie, ma non erano esse responsabili delle variazioni morfologiche, né delle lontananze tassonomiche. Erano, come si disse, mutazioni "neutrali", indifferenti alla "selezione naturale". Lo affermò esplicitamente François Jacob (1977), uno dei fondatori della genetica biochimica:« on sono le novità biochimiche che hanno generato la diversificazione degli organismi [...] Ciò che distingue una farfalla da un leone, una gallina da una mosca, o un verme da una balena è molto meno una differenza nei costituenti chimici che nell'organizzazione o distribuzione di questi costituenti».
Queste citazioni mi hanno suggerito di sottotitolare il mio ultimo libro sulla evoluzione Why is a Fly not a Horse? (Perché la mosca non è un cavallo?) (Discovery Institute Press, Seattle 2006).
L'opera di Michael J. Behe tratta della complessità biochimica della vita, un argomento eluso dai primi evoluzionisti, perché, come Behe nota, la teoria evolutiva è nata senza l'apporto della biochimica. Quando ci si rese conto della complessità della vita minima, questa risultò non realizzabile per gradi, non deriva bile passo passo da una semplicità iniziale che, peraltro, non era attestata trai viventi. Ricordiamo il grado di elaborazione del minuscolo flagello di un invisibile batterio. Behe attribuisce agli incredibili aggregati biochimici una "complessità irriducibile", cioè tale da non poter essere raggiunta per passi successivi. Egli non intende e non può direi come si sia formata. Questo suo fermarsi e pronunciare uno scientifico "non so" lo ha fatto classificare dai suoi avversari darwiniani come "creazionista".Come se fermarsi alla soglia del mistero significasse adottare come soluzione del problema quell'ignoto che umilmente si confessa di non poter dominare.
Lo sviluppo della biochimica, nella seconda metà del Novecento, ha mostrato che la "scatola nera" della cellula conteneva la gloria di una cattedrale, proprio laddove l'evoluzione presumeva dovesse trovarsi la lacrima solitaria delle origini. Riassumendo, la teoria dell'evoluzione si è formata per opera di discipline non biochimiche (anatomia, embriologia, paleontologia, etc.) e l'avvento della biochimica ha riaperto il problema, mostrando all'origine non solo un'alta complessità, ma una "complessità irriducibile", non perseguibile per gradi attraverso una serie progressiva di complessità intermedie.
Una felice metafora esplicativa della complessità irriducibile è stata proposta da Behe, ed è la ormai famosa "trappola per topi". Questa è composta di cinque parti: una piattaforma di legno, un martello metallico, una molla, un gancio sensibile, una sbarretta, in complesso un "organismo" alquanto semplice. Essa non può formarsi pezzo a pezzo, per successivi perfezionamenti, con il metodo darwiniano, per l'ovvia ragione che funziona solo a completamento dei componenti, la mancanza di un solo pezzo ne azzera l'utilità e non sono concepibili anelli intermedi gradualmente migliori. Ovviamente la trappola richiede un progetto e un operatore intelligente, per realizzare un congegno che è cento volte più semplice di un flagello batterico.
Tre volte Eva
Un'altra breve digressione biblico-mitologica. Il genesi biblico presenta due nascite di Eva. Prima ella nasce compiuta, accanto ad Adamo ("Li creò maschio e femmina" Genesi 1:27). Nella seconda versione ella nasce, per "donazione", dalla costola di Adamo (Genesi 2:22). Nel primo caso, Eva nasce adulta, nel secondo da un "germe" o forse da "un errore", se questo è il senso della tsela ebraica, piuttosto che quello canonico di "costola". Altri testi raccontano di tre prime donne (cfr. R. GRAVES & R. PATAI, I miti ebraici, 1969). La prima è la famigerata Lilith, formata con la polvere, come era stato formato Adamo, ma usando soltanto sedimenti e sudiciume invece della pura terra. e emerse una strega dissoluta, insofferente di dover sottostare al maschio: un giorno si librò nell'aria e lo abbandonò. Gli angeli mandati da Dio a cercarla la trovarono vicino al Mar Rosso, insieme a demoni lascivi, con i quali ella concepiva più di cento lilim al giorno. Mirabile esempio, diremmo, di efficienza riproduttiva, ma poco raccomanda bile come madre dei viventi e dell'umanità. Allora Dio provò un'altra volta. Mise insieme ossa, tessuti, muscoli, sangue e secrezioni ghiandolari, poi coperse tutto con la pelle mettendo ciuffi di peli nei posti prescelti. Adamo assisté all'operazione, ma quando Dio gli presentò la compagna costruita pezzo a pezzo ne provò una invincibile ripugnanza e il Signore dovette portarla via. Poi Dio fece la terza Eva, la nostra progenitrice, dalla costola di Adamo, intrecciò i suoi capelli e la adornò come una sposa, con ventiquattro gioielli. Adamo rimase colpito da tanta bellezza. Il mito insegna che la esagerata potenza riproduttiva genera esseri che non sanno far altro che riprodursi (quello che fu detto "il paradosso di Casanova"), ma soprattutto che un essere fatto pezzo a pezzo può avere un'apparenza tollerabile, ma è sgradevole nelle sue fasi di fabbricazione. L'unico modo per costruire una vera bellezza è partire da un germe totipotente (una "starninale'P), che nel testo biblico è la costola di Adamo.
Plotino e gli gnostici
Il tema delle origini animò la filosofia dei primi secoli della nostra era. Da un lato i pensa tori gnostici immaginarono un mondo fabbricato da un Demiurgo arruffone, con le modalità dell'artigiano, che assembla alla buona gli oggetti, parte per parte (come la seconda Eva), e lascia che la ragione e il tempo perfezionino i suoi prodotti, attraverso un processo riferibile alla moderna evoluzione. D'altro lato i neo-platonici, e segnatamente l'egiziano Plotino (205- 270 d. C.), oppongono allo schema artificiali sta o tecnomorfo degli gnostici l'opera di un intelletto naturale. Gli esseri «sono prodotti con un processo esplosivo, immediato, di irraggiamento simultaneo ed imprevedibile del proprio contenuto interno. L'intelligenza, che contiene tutto dentro di sé, si attualizza di colpo, senza ricorrere a deliberazioni, a materiali o a strumenti preesistenti» (cfr. E. SAMEK LODOVICI, «Riv Biol.», 1981). Alla totalità che viene dopo le parti (totalitas post partes) degli gnostici, Plotino oppone il modello della natura, che realizza i suoi progetti in modo immediato (totalitas ante partes). I modelli gnostici avversati da Plotino sono tre: quello artigianale, quello casuale, a cui si aggiunge quello finalistico. Se ragioniamo finalisticamente «porremmo prima un uomo con un aspirazione ad un occhio per vedere, o un animale con una aspirazione a delle corna per difendersi [...]. Quasi che le corna non fossero già l'animale o anche l'occhio o qualsiasi altro organo non fossero già l'uomo» (PLOTINO, Enneadi, VI, 8, 21-40)
Il modello darwiniano contiene tutti gli elementi della gnosi (Samek Lodovici, cit.). L'organismo che si evolve risulta costruito dall'esterno, parte per parte, come lo farebbe un artigiano. L'artefice modifica l'opera per miglioramenti successivi, come fa un allevatore di cavalli. Darwin non ebbe bisogno di ricorrere a quel Caso che gli si attribuisce generalmente, perché era convinto della trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti per azione dell'ambiente (à la Lamarck). Quando il neo-darwinismo (Weismann, 1875) escluderà l'effetto diretto dell'ambiente e abolirà il ricorso ad ogni finalismo, allora l'evoluzionismo tirerà fuori il Caso, il puro Caso, come motore primo della trasformazione dei viventi, e come risorsa definitiva (cfr. J. MONOD, Il Caso e la Necessità, 1970).
All'inizio del Novecento la critica all'artificialismo fu ripresa dal filosofo francese Henry Bergson (1907). Egli ribadì il concetto plotiniano che l'Artificio e il Caso sono equivalenti. Laddove l'artifcialista assimila il lavoro della natura ad un assemblaggio di parti, il casualista (o atomista) «non si accorge di procedere anch'esso secondo lo stesso metodo, semplicemente mozzandolo. È vero che fa tabula rasa del fine [...] ma anch' esso pretende che la natura lavori come l'artefice umano mettendo insieme dei pezzi». Fu con il sorgere della biologia molecola re e con l'idea di "mutazione" come alterazione accidentale del DNA che il Caso assunse nell'evoluzionismo il ruolo dominante. «Soltanto il Caso è all'origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera - sentenziò Jacques Monod -, il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell'evoluzione». Nel Caso Monod vide l'antidoto ad ogni finalismo antropomorfico, l'affermarsi della nuova religione senza dei e senza profeti. Ma mentre Bergson vedeva nel "principio della vita" o nello "slancio vitale" l'evoluzione stessa, Monod riconosce che tutte le proprietà degli esseri viventi si basano su un conservatorismo molecolare. L'evoluzione, secondo Monod, non è una proprietà degli esseri viventi, è l'imperfezione di un meccanismo conservativo.
Una solida opposizione al casualismo di Monod fu formulata dagli "strutturalisti dinamici" di Osaka (1986), che contrapposero:
- alle domande esterne, obblighi interni;
- alle variazioni casuali, trasformazioni governate da leggi;
- all'ordine empirico, un sistema interno di trasformazioni (Webster, 1987).
La successione dei viventi non ha carattere "storico". essuna analisi molecolare può stabilire, dal confronto tra padre e figlio, chi è chi. Né potrà farlo confrontando le anatomie o le molecole di due taxa distinti. L'unico evento storico della generazione organica è il degrado, cui il "conservatorismo molecolare" faticosamente si oppone. L'evoluzione organica è un paradosso, un sasso che rotola salendo la montagna, una serie di errori di stampa che migliorano un testo, una bambola montata per tentativi dal puro caso.
A queste aporie l'evoluzionista oppone l'eccezionalità e la gradualità. Ciò che pare impossibile nell'attualità diventa possibile se i tentativi divengono innumerevoli, se il tempo diviene immenso, se i grandi passi sono la somma di innumerevoli piccoli passi, se si consente, con una buona dose di pazienza, di tentativi e di fortuna, a una mucca di saltare sulla luna.
La difficoltà più grande che si oppone alle ricostruzioni storico-evoluzioniste è in questo semplice interrogativo. "Come può una specie, o un organo, formarsi passo passo, se essa od esso funziona solo a completamento?". "Come può una zampa diventare un'ala, con l'aiuto della selezione, se tutte le condizioni intermedie tra la zampa e l'ala sono un impiccio, un vano moncherino?". Al più si deve chiedere alla selezione di sospendere i suoi uffici, proprio in nome della teoria che alcuni (e in certa misura Darwin stesso) identificano con la teoria della selezione naturale.
Una donnola sfuggente
Richard Dawkins (L'Orologiaio cieco) pensa di aver trovato un esempio di complessità raggiunta per caso e per gradi, in un esercizio al computer. Egli imposta una serie casuale di 28 tra lettere e spazi:
WDLMNLT DTJBKW IRZREZLMQCOP
Facendo ruotare a caso e contemporaneamente le lettere dell'alfabeto in ogni casella, non solo non ottiene alcuna frase sensata, ma può calcolare che gli accorrerebbero miliardi di anni per dare significato alla riga. In altre parole non ottiene alcun progresso e rimane sempre nella confusione iniziale. Allora Dawkins decide di introdurre un piccolo trucco. Inserisce in memoria un verso di Shakespeare:
METHINKS IT IS LIKE A WEASEL,
che in italiano tradurremmo:
O FORSE SOMIGLIA A UNA DONNOLA.
Istruisce quindi il computer così che "blocchi" ogni lettera variante appena si presenti al punto giusto; p. es. quando al posto della quarta "M" arrivi la giusta "H" (o "S", se il verso in memoria è in italiano). In queste condizioni, che Dawkins chiama di "cumulative mutations", la frase si forma in pochi minuti. Ovviamente questo esperimento, anziché dimostrare che il caso cieco può formare una frase sensata, mostra al contrario che solo entro un sistema che è stato istruito, cioè finalizzato a un esito prestabilito, la frase si può formare. Se ne può concludere che non si può formare alcunché , se quell'alcunché non c'è già.
Questo esercizio elusivo (in inglese "weasel words" significa "parole ambigue") consente altre considerazioni. Il verso in memoria di per sé non ha alcun significato, nessuno più della serie di lettere di partenza. Lo acquista solo se situato in un sistema di codici che lo nutrano di senso. Esso richiede un alfabeto, un lessico, una grammatica, una storia, etc. Per un italiano che non sappia di inglese il verso ha la stessa insensatezza della frase iniziale (a parte una più gradevole sonorità). Per un inglese è il verso italiano che è senza senso, né più né meno della iniziale astrusità. Una frase, una formula, una qualunque forma acquista significato solo se inserita in uno O più sistemi di codici (o di "convenzioni naturali"). L'esempio più familiare di codice convenzionale è quello dell'alfabeto Morse. Il più vicino alla nostra materia è quello del famoso "codice genetico", in virtù del quale una o più triplette di nucleotidi identifica uno su venti amminoacidi. Come notato da A. Sibatani, il codice dà significato al DNA (tramite RNA) pure essendo del tutto arbitrario. Marcello Barbieri (La teoria semantica dell'evoluzione, 1985) immagina un'evoluzione che si realizza attraversi l'instaurarsi di successive 'convenzioni naturali', ultima tra le quali il linguaggio dell'uomo.
Non è il fine che crea l'oggetto
Rifiutando il gradualismo, Behe non considera l'esito finale come il risultato di una decisione iniziale, sviluppata in un discorso. Il Disegno si rivela solo nella totalità conclusa. In questo Behe non è lontano da Monod (I970), che non crede in un destino realizzato per gradi. «Il destino - scrive il francese - viene scritto nel momento in cui si compie e non prima. Il nostro non lo era prima della comparsa della specie umana [...l. Il nostro numero è uscito alla roulette». Diverso è il "destino" secondo Dawkins, che prefigura un esito finale prestabilito (METHINKS IT IS ...) e poi realizzato per gradi. Per Behe il fenomeno complesso non ha invece precursori che lo anticipano e lo preparano, non è il compimento di un'evoluzione. I fenomeni biochimici hanno certamente un "fine", ma le loro "parti" hanno significato, per Behe, solo nel "tutto", entro cui stabiliscono i collegamenti che le rendono funzionali ("totalitas ante partes" di Plotino).
Il modello della "trappola per topi" nega la genesi del sistema per passi successivi. Le parti non si aggiungono come fossero gadget applicati a un complesso già operante. Così pretende l'evoluzionismo classico (à la Haeckel) secondo il quale la novità biologica si realizza attraverso aggiunte successive a un sistema progressivamente più funzionale: il pesce che acquista i polmoni, il rettile tetrapode che mette le ali, la giraffa che acquista il suo fatidico collo lungo.
L'evoluzionismo di maniera rimane ancorato alle concezioni dei presocratici. Così è descritta l'azione di Amore (Afrodite) in un frammento di Empedocle (V sec. a.C.): «Esso fece nascere molte teste senza collo, e vagavano braccia nude senza spalle. Occhi erravano qua e là, privi di fronte». Questi oggetti si riunirono «come capitava», a formare esseri chimerici o, eccezionalmente, ordinati. Ritroviamo queste parti che «happened to be around» (capitavano in giro) nelle argomentazioni di Dawkins.
Behe lega il concetto di Disegno alla complessità, Iimitandolo a quei casi dove «un numero di componenti separate e interagenti sono aggregate in modo tale da realizzare una nuova funzione oltre a quella dei singoli componenti». Il Disegno diventa evidente tanto più quanto più numerose sono le parti, come nei sistemi biochimici che controllano la respirazione cellulare, la coagulazione sanguigna o il flagello batterico.
Quando una struttura è evocata da un insieme che la attende e l'anticipa, è all'opera un disegno. Il livello molecolare dell'organizzazione si esprime in un contesto morfologico altamente strutturato, che lo "anticipa". Nello sviluppo dei nervi, gli impulsi nervosi sono trasmessi nel campo in cui si costituirà la fibra, prima che la fibra appaia. Questa è organizzata dagli impulsi stessi di cui sarà vettore. È il funzionamento che prepara l'organo: sono le contrazioni ern- brionali che producono il muscolo e non accade l'inverso, che il muscolo attenda di prendere forma prima di lavorare. Ogni forma attrae lo sviluppo verso se stessa, a riempire il suo spazio e la realtà sembra accorrere verso un bacino preparato per lei, come a cercare la sua configurazione in un paesaggio predisposto. «Ogni forma propria - scrive il matematico René Thom - aspira all'esistenza e attrae il fronte d'onda degli esseri». Un Disegno è una composizione che si realizza istantaneamente. on corrisponde alle Cause Finali verso cui gradualmente si sposta la realtà. Come scrisse Francesco Bacone, «le cause finali sono come vergini vestali, consacrate a dio e sterili».
Secondo Behe e il Discovery Institute di Seattle il Disegno che regge la realtà, cosmica o chimica, minerale o vitale, è "intelligente" (Intelligent Design o ID): è Disegno in quanto è intelligente. A differenza che nel neo-darwinismo, che considera l'uomo una specie come un'altra, l'uomo e la sua mente hanno certamente una parte centrale nell'Intelligent Design. La "intelligibilità" del Disegno è il suo tratto fondamentale. Essa stabilisce un parallelismo tra il Macrocosmo e il Microcosmo, tra il pensiero universale e il pensiero nella nostra mente. C'è dunque, nei sostenitori dell'ID, l'aspirazione dell'uomo al ritorno alla signoria della atura, da cui il neo-darwinismo lo ha estromesso, facendone un caso tra tanti; c'è una nostalgia del Dio, che una Gnosi spuria ha esiliato dal mondo (Ennio Innocenti, 2003). Tra l'uomo e l'universo esiste una misteriosa complicità: la realtà dispone il suo ordito su cui si svolgono le trame dell'umana intelligenza.
Ci sono problemi di ardua soluzione, altri che sono intrinsecamente insolubili (quanto meno con i solventi della corrente razionalità). Tra questi domina il problema della complessità della vita, che non può spiegarsi con una gradualità progressiva, perché non è il risultato ultimo di un lunghissimo processo: è presente all'inizio, in una ermetica "scatola nera".
Giuseppe Sermonti
Direttore della «Rivista di Biologia/Bìology Forum»